domenica 14 giugno 2015

PISS STOP

Racconto di Rubrus


«Ogni storia fantastica, per non dire ogni storia, si basa sul rapporto col potere. Le storie mediocri parlano di chi il potere ce l’ha e lo usa, quelle migliori di chi il potere non ce l’ha, ma lo trova dentro si sé, o lo acquista a caro prezzo, o lo perde. Per questo “Predator”, funziona.  Avete presente l’inizio?  Scwharzy e il suo gruppo di supermacho atterranno nella giungla per salvare un pezzo grosso da un gruppo di guerriglieri e non c’è bisogno di dire che si tratta di guerriglieri comunisti – infatti il film non lo dice.  Potrebbe essere benissimo un’altra storia con Rambo che va a salvare i soldati americani prigionieri in Vietnam. E, come previsto, i nostri arrivano, suonano il loro pezzo a suon bombe e mitra e la missione pare compiuta. Solo che tutto dura un quarto d’ora scarso. Perché, da quel punto in poi, qualcosa, qualcosa che è peggio dei comunisti inizia a dare la caccia a Schwarzy e compagni e gli omaccioni supertozzi, che verranno fatti fuori come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie, da predatori diventano prede. Il rapporto di forze è invertito».
Il pistolotto aveva una sua logica, ma il fatto che, a tenerlo, fosse un tale in tenuta da guerriero alieno con tanto di treccine rasta incollate ai lati del cranio (la maschera, con gli uncini mobili come i palpi di un granchio, era appoggiata sul sedile) gli toglieva credibilità.
Cosa c’era di peggio di una riunione di cosplayers?
«Ehi, capo, quand’è che ci fermiamo per andare al gabinetto?».
Che domanda. Una riunione di cosplayers incontinenti.
Giorgio, consapevole che l’autostrada era deserta e, soprattutto, che non c’erano autovelox o tutor nelle vicinanze, spinse il piede sull’acceleratore, superando i novanta.
Erano maledettamente in ritardo. Era tutto maledettamente in ritardo.
L’aereo che portava i sei sciamannati alle sue spalle era atterrato un’ora dopo quella prevista e, anche se Giorgio sospettava che fosse dipeso dalla necessità di convincere la sicurezza che pistole a raggi, spade laser, cannoni al plasma e altre bazzecole che quei disgraziati si portavano dietro non erano armi, la Direzione lo aveva spedito a prenderli organizzando un trasporto speciale.
“Se quelli non arrivano in tempo ci piantano un casino a paragone del quale “Guerre stellari” sembrerà una partita a rubamazzo, perciò piglia il pulmino, fila a prenderli, portali qui e non menarla con gli straordinari” gli aveva ingiunto il boss.
Giorgio non ci pensava affatto a menarla, anche perché non aveva diritto agli straordinari. A trent’anni suonati aveva messo da parte la laurea in lettere e si era preso la patente D. Gli era costata un bel po’ ma si era rivelato un investimento utile. Quando la direzione del Cosmo Hotel (anzi: CosMOHteL, come diceva l’insegna) aveva stabilito a chi rinnovare il contratto, il suo nome era finito in cima alla lista. “Capace che ci torna utile, la volta che dobbiamo organizzare un servizio navetta” doveva aver detto il boss, prima di spostare la penna dal nome di Giorgio a quello subito sotto e cancellarlo con un bel rigone nero.
Ed eccolo lì, alla guida di un pulmino a nove posti, verniciato con quel colore giallo che, nei film americani, sembra fatto apposta per attirare squilibrati di ogni ordine e grado. Tutte le volte che passava sotto un viadotto, Giorgio guardava in alto aspettandosi di trovare l’Ispettore Callaghan.
Non era così che pensava di arrivare ai trent’anni. Oh, certo, un po’ di gavetta l’aveva messa in conto, perché si sa che con la laurea in lettere non ci è mai campato nessuno, ma aveva sperato di raggiungere, intorno ai venticinque anni – quell’età in cui cominci a tenere il conto del  tempo perché prima, tutti gli anni sono uguali (e non si comprende perché non dovrebbe essere così dato che, come ti bisbiglia la sirena che hai nel cuore, sarai eternamente giovane) – un certo grado di stabilità.
E invece non era successo. Era in ritardo. Era tutto maledettamente in ritardo.
Gli toccava scarrozzare a notte fonda sulla E45 – un’autostrada che, si sarebbe detto, gli americani avevano bombardato con particolare impegno e che nessuno si era curato di riparare, peccato che, come tutte le autostrade italiane, fosse stata costruita un bel pezzo dopo il ’45 – un’accozzaglia di cinquantenni rimbambiti.
Cinquantenni di potere, però.
Darth Vader, prima che si finisse di caricare i bagagli, aveva raccolto i mandati per un’azione contro il tour operator se questo non avesse erogato l’indennizzo per il ritardo e non l’avesse corrisposto subito. Dopotutto, non c’era una gran differenza tra una toga e il mantellone nero di Annakin Skywalker e c’era da scommettere che l’amico conoscesse bene il lato oscuro della forza.
«Allora?».
A parlare era stato Spock che, forse perché Nimoy era morto da poco – il vulcaniano no, si sa che campano un sacco di anni, ci teneva a precisare il tizio con le orecchie posticce – si comportava come se gli dovesse essere riconosciuta una sorta di superiorità morale. Nella vita, Spock faceva l’ingegnere petrolifero. Giorgio lo aveva capito perché, poco prima, lo aveva sentito discutere con un tale in costume da robot anni ’50 (“Robby” era il nome: non troppo originale, ma a quell’epoca se lo potevano permettere) dei problemi legati al fracking e di quanto si scavasse alla ricerca del petrolio.  “Avete notato come non si parli più di esaurimento del petrolio? Anni fa era una questione all’ordine del giorno, mentre ora non è più un problema... ed è vero. Non lo vediamo ancora, il problema. Stiamo scavando troppo precipitosamente, troppo in fretta e troppo in profondità. Decisamente troppo a fondo.  Non mi stupirei se destassimo il Balrog di Moria”.
A questo punto Robby era saltato su dicendo che il Balrog era una creatura fantasy e non era dignitoso parlarne tra appassionati di fantascienza. Spock aveva replicato chiedendogli se, secondo lui, “Guerre Stellari” era una saga fantasy o fantascientifica. Darth Vader era intervenuto e la discussione aveva preso tutt’altra direzione, puntando decisamente verso la rissa.
Giorgio si era visto in una stazione della Autostradale a spiegare che, lui, con quei sei forsennati in costume che si erano presi a cazzotti dentro il suo pullman non c’entrava niente, quando dalla radio era uscita la versione di “Sixteen tons” usata dalla Petrox come jingle e Spock, con uno scatto d’ira poco vulcaniano, gli aveva chiesto di cambiare canale.
Il tizio con lo sciarpone e il vestito anni ’70 che voleva essere chiamato Il Dottore (ci metteva due maiuscole, quando lo diceva, e facile che lo fosse sul serio, probabilmente chirurgo estetico) aveva chiesto a Spock se per caso lui lavorasse per la Petrox, l’altro aveva mugugnato un “lavoravo” e le acque si erano calmate.
Finché non era venuto fuori il problema “pipì”.
«Siamo già in ritardo» disse Giorgio «e non posso aumentare l’andatura più di tanto: la strada non lo consente». Avevano oltrepassato Cesena e, in un sussulto di dignità, la E45 aveva abbandonato la definizione di “autostrada” per assumere quella, più dimessa, di SS3bis. Peccato che anche quella denominazione fosse esagerata. Il tratto che stavano percorrendo, tra deviazioni, buche, lavori in corso, avrebbe potuto essere una mulattiera con manie di grandezza. O forse, a dare quell’impressione, erano l’assenza di veicoli in tutt’e due le direzioni e gli Appennini incombenti, boscosi e privi di luci.       
«Manca molto all’arrivo?» chiese Robby. Liberarsi di quel costume argentato non doveva essere facile; Giorgio non aveva visto cerniere, ma, dopotutto, non era previsto che gli automi lo tirassero fuori, qualsiasi uso dovessero farne.
«Un paio di uscite, e quella è la prima». Controllò l’orologio: le undici e dieci. Era in piedi da venti ore e, una volta che avesse raggiunto il letto, neanche un’invasione aliena sarebbe riuscita a svegliarlo. I cartelli che indicavano l’uscita parevano venirgli incontro come supporters.   
«Alzi il volume» ordinò Predator (che, a giudicare dalla faccia, diventata verde senza bisogno di trucco, soffriva di chinetosi). L’audio non era basso, in realtà. Semplicemente, la ricezione era pessima dopo che Spock aveva chiesto di cambiare canale. Giorgio smanettò fino a tornare alla stazione precedente, in tempo per sentire le informazioni sul traffico. Le quali lo avvisavano che l’uscita successiva, la loro, era chiusa per lavori a partire dalle undici e trenta.
Giorgio imprecò sterzando all’ultimo secondo. L’unica donna del gruppo, che sembrava un campionario ambulante di protesi al silicone, strillò, e Il Dottore, seduto accanto a lei, scivolò a metà fuori del sedile, puntellandosi con un piede.
«Ehi cosa ti prende?» latrò Darth Vader.
«Volete che inverta la marcia e torni indietro contromano?» Non era la risposta più adeguata per quei gerontocrati affetti da infantilismo, ma se la sarebbero fatta passare. Certo, se avesse superato l’uscita, Giorgio avrebbe potuto riguadagnarla a marcia indietro, ma non era il caso. Benché non avessero incrociato nessuno da almeno mezz’ora e la strada fosse probabilmente deserta, l’illuminazione non era buona e, dal buio alle loro spalle, avrebbe potuto sbucare qualunque cosa.
Qualunque cosa? E da dove gli veniva questa?      
«Be’, se si rimane sintonizzati sulla frequenza sbagliata e si è senza navigatore...» osservò Spock.
Giorgio lasciò perdere. Aveva altre priorità, come si rendeva conto mentre discendeva la rampa inoltrandosi nel buio.
Tanto per cominciare, aveva solo una sommaria idea di quale strada prendere. 
«E suppongo che arriveremo tardi alla convention» ringhiò Darth Vader. Aveva abbassato la voce di un’ottava, neanche indossasse la maschera, e c’era da scommettere che quello fosse il suo “tono da tribunale”.
«C’è un paese, più avanti» li informò Giorgio. Se chiamavano “statale” quel tratturo, lui poteva chiamare “paese” quel gruppuscolo di luci simili a lumini da fiaba sperduti nel fitto del bosco.
«Il cellulare non prende» comunicò Il Dottore armeggiando con un aggeggio che, venuto da un futuro fantascientifico, lo sembrava davvero.
«Dev’essere per via delle montagne» confermò Predator smanettando col suo. Gli altri non ebbero maggior fortuna.
La donna frugò nella borsetta ed estrasse un tablet. Non avrebbe potuto portare un cellulare, addosso, non con quei vestiti: non ci sarebbe stato nulla di più voluminoso di un pacchetto di sigarette. Da quando erano partiti Giorgio si domandava quale fosse il personaggio al cui costume – si faceva per dire – si era ispirata, ma non gli veniva in mente niente. Probabile che si trattasse di qualcosa estraneo al suo bagaglio culturale (si faceva sempre per dire), o che la quantità di pelle esposta incidesse negativamente sulle sue facoltà mnemoniche. Tardona o non tardona, silicone o non silicone, gli istinti animali avevano le loro esigenze e sapevano imporle.
«Niente» si lamentò Miss Non Senso del Pudore «rifiuta persino di accendersi».
Come li avevano convinti a comprare i primi cellulari? Ah già: “casomai foste per strada e ci fosse un’emergenza”.
Il paese li aveva raggiunti, ma si capiva che non sarebbe rimasto con loro per molto, benché Giorgio avesse rallentato nella speranza di vedere un bar aperto o una cabina telefonica.
Le case dovevano essere poco più di una dozzina e, più che affacciarsi sulla strada, sembravano sporgersi come tartarughe appena svegliate dal letargo. Un paio di lampioni erano spenti senza che importasse a nessuno. Una macchina, su una strada laterale, era parcheggiata per metà sul marciapiedi e per metà sulla carreggiata; anche se riusciva a vederla solo con la coda dell’occhio nello specchietto retrovisore, Giorgio avrebbe giurato che una portiera era aperta. Più avanti, un cassonetto dell’immondizia si era rovesciato e i rifiuti erano sparsi dappertutto. Dovette superare la mezzeria per evitarli.
«Per la miseria, che mortorio» commentò la voce di Robby.
Il Dottore fece per unirsi al coro, ma il jingle della Petrox lo sovrastò.
«Spegna quell’affare!» urlò Spock. Giorgio si sporse, lieto di accontentarlo. Quella canzonetta gli stava dando sui nervi: la mandavano in onda troppo spesso. Quando tornò a fissare la strada, il paese era bell’e finito. Un bar, al pianterreno dell’ultima casa, c’era, ma era chiuso. La “B” dell’insegna era spenta e la “AR” superstite li salutava come una risata rauca.
«Colgo un certo astio nei confronti dell’ex datore di lavoro» ridacchiò Darth Vader.
«Lei è uno di quelli che crede di sapere sempre tutto, vero?» lo rimbeccò Spock. La sua voce si era fatta gelida. Doveva essere uno di quei tipi che, quando s’infuria, diventa freddo come gli iceberg che vanno alla deriva e affondano le navi. «Sa che cos’è il petrolio?».
«Anche io devo andare in bagno» intervenne Robby.
«Il residuo della composizione di antichi organismi» ripose Darth Vader, ignorandolo.
«Secondo la tesi predominante, il materiale biologico dal quale deriva il petrolio è costituito da organismi unicellulari marini sepolti nel sottosuolo centinaia di milioni di anni fa, in particolare durante il paleozoico. Fitoplancton, zooplancton, batteri. Sa che sono stati rianimati batteri vecchi di milioni di anni? Quelli che propendono per l’origine abiotica fanno rilevare che metano e idrocarburi sono sparsi per tutto l’Universo. Il sistema solare ne è pieno. Tutta roba di origine sconosciuta, rimasta sottoterra per tempi incommensurabili e sottoposta a chissà quali trasformazioni chimiche. E noi la stiamo riportando alla luce per sete di guadagno. È come dice la canzone. Non conosce il testo, vero?, Be’ forse dice la verità. “Ho venduto l’anima alla compagnia mineraria”».    
Darth Vader stette un po’ in silenzio, poi scoppiò a ridere. «Questo sì che si chiama “amore per la natura”. Una crociata ecologista in difesa dei batteri. Oh, andiamo, siamo pratici. Sono sicuro che persino questo macinino usa carburante “Petrox”!».
Giorgio non disse nulla. C’era un distributore della Petrox davanti al Cosmo Hotel. Lo avevano installato da poco, sostituendo il precedente gestore.
«Io comunque devo andare al cesso» insistette Robby.
«Il suo amico, qui, teme che noi si possa arrivare in ritardo e le confesso che i suoi timori non sono del tutto infondati, perciò, se volete che accosti... ».
«Ehi, io non posso andare in mezzo ai campi. Sono un donna, casomai non lo aveste notato». Barbarella, ecco chi! O meglio, colei cui si era ispirata. Non gli era venuto in mente subito perché non era un riferimento immediato, ma il modo in cui lo aveva detto gli aveva ricordato Vadim e, per associazione, il fumetto fanta – erotico – letterario la cui protagonista sfoggiava mise altrettanto succinte.
«Naturalmente» confermò Predator rompendo il suo bellicoso silenzio. «Ci sarà pure un altro paese più avanti».
Ovvio che sì. Doveva esserci, anche se niente, là fuori, autorizzava ad affermarlo.
Giorgio cercava di tenere un percorso parallelo all’autostrada che stava, grosso modo, alla sinistra, ma non era facile. La linea di cemento, sopraelevata, si indovinava, più che vedersi e, come se non bastasse, da qualche minuto il cielo si era fatto buio. “Era una notte buia e tempestosa” scriveva Snoopy e tutti quanti lo prendevano in giro. Quando ti ci trovavi in mezzo, però, non c’era niente da ridere. E non serviva neppure la tempesta.
«Quello è un distributore» annunciò indicando la sagoma familiare di una tettoia illuminata, simile ad un giardino pensile piantato a metà.  
«Magari è della Petrox» fece Darth Vader.
«Ah, sono sicuro che Spock non si lamenterà» disse Predator.
«Ma certo» convenne Il Dottore «Dobbiamo solo fare pipì, mica diventarne azionisti».
«Piss Stop» ridacchiò Robby. Sembrava decisamente sollevato.

«Bene, signori, cinque minuti, non di più» disse Giorgio aprendo le portiere «siamo già in ritardo e non vorrei peggiorare la situazione. In ogni caso, non credo che troverete una gran fila».   
«Io non vorrei trovare chiuso» brontolò Predator. 
«L’emporio, laggiù, pare aperto» osservò Barbarella indicando un negozietto poco lontano. Anche se non si vedeva nessuno, le luci erano accese.
«Non mi pare una buona occasione per mettersi a fare compere, al tuo solito» disse Il Dottore, aiutandola a scendere. Facile che si conoscessero già, concluse Giorgio. Probabilmente lui era il suo chirurgo plastico di fiducia. «È quasi mezzanotte».
Darth Vader fu l’ultimo a scendere «Non saremmo in ritardo se qualcuno non si fosse scordato di controllare le informazioni sul traffico» recriminò attraversando a grandi passi lo spiazzo incurante del fatto che qualcuno potesse vedere un mammasantissima di una galassia lontana lontana precipitarsi a fare pipì in un distributore di paese.
Giorgio soffocò un sincero “vaffanbagno” e aprì il cruscotto alla ricerca di qualche cara, buona, vecchia cartina della zona. Alzatosi per chiuderlo, vide che Spock, benché fosse sceso, non si era mosso.
«Sicuramente c’è un gabinetto solo e io non ho tutta questa fretta» disse a mo’ di spiegazione «E lei? No, suppongo di no. Lei è giovane».
«Mai abbandonare la nave».  
«Giusto. Potrebbero approfittarne i pirati». Mise una mano in tasca, estrasse una caramella e prese a succhiarla. «Avrei una gran voglia di fumare, anche se ho smesso una quarantina di anni fa». Tirò fuori un accendino. Anche senza guardarlo da vicino, Giorgio fu certo che fosse d’oro. «Lo conservo per ricordare a me stesso che ho smesso di fare una cosa stupida» disse Spock, poi sollevò lo sguardo verso l’insegna del distributore: un gorilla bipede che sputava fiamme. Petrox, manco a dirlo. «Molto stupida».

«Ma quanto ci mette?» Predator era il prossimo della fila. Avere indovinato che, effettivamente, c’era un gabinetto solo, misto, per di più, non gli aveva dato diritto a nessuna priorità.
«Il nostro amico ha molta roba da svuotare sotto quel costume argentato» disse Darth Vader, dietro di lui. Alle sue spalle, Il Dottore, malgrado lo sciarpone, pareva rabbrividire «Io sceglierei l’opzione “innaffiare i campi”».    
«Tanto pare che siamo incollati qui. Sua moglie, a quanto pare, è a fare shopping».
L’altro allungò la testa verso il negozietto. «Strano che sia aperto».
«Cosa vuole che ci sia da rubare in questo posto dimenticato da Dio?» osservò Vader.
Predator portò una mano al basso ventre, come se avesse anche lui un bel po’ di roba da scaricare, e in fretta, e bussò alla porta del gabinetto.
Il Dottore si diresse verso lo spazio oscuro oltre l’isola luminosa del distributore.
Predator bussò più forte.

«“Una mascherata”, amico mio, sono sicuro che sta pensando questo: “Sto sprecando la mia giovinezza a portare dei ricconi annoiati a una festa in maschera” e sa cosa le dico? Ha ragione. Sulla festa in maschera, almeno. Queste» disse Spock toccandosi le orecchie «Servono a illuderci ricordando i giorni in cui pensavamo che il tempo fosse fatto di promesse meravigliose, tutte da mantenere».
«Ho smesso da un po’ di pensare che il futuro possa riservarmi qualcosa di meraviglioso» rispose Giorgio scrutando la cartina «Mi accontenterei di arrivare a destinazione prima che quel tizio col mantello nero decida di fare causa a tutti quanti e io perda il posto». Subito si pentì di averlo detto. Erano mascherati e lui aveva visto solo la maschera, come ci si aspettava. Magari quel tale con le orecchie a punta non era così male. Cercò una frase cui porre rimedio, ma l’altro lo batté sul tempo. «A proposito, vado a vedere a che punto sono. Mi pare siano passati ben più di cinque minuti».
Giorgio lo osservò allontanarsi attraversando lo spiazzo. Improvvisamente, gli sembrava più vasto.
Prima aveva notato la donna – Predator aveva ragione, c’era un servizio solo – uscire dal bagno e andare verso l’emporio. Non era tornata, però.
Allungando il collo, vide che Predator e Darth Vader erano ancora in fila. Il Dottore non si vedeva. Probabilmente era dentro. E Robby? Magari era dentro anche lui. Ma se c’erano due posti perché, prima, era entrata solo Barbarella?
Be’, mica potevano essersi persi. 
Si sentì a disagio e, automaticamente, accese la radio.
I was born one mornin' when the sun didn't shine[1]
Per la miseria, ma trasmettevano solo quella canzone?.
La spense con rabbia.   
Tutta roba di origine sconosciuta, rimasta sottoterra per tempi incommensurabili e sottoposta a chissà quali trasformazioni chimiche. E noi la stiamo riportando alla luce.
Tornò a concentrarsi sulla cartina. Sperò di potersene andare in fretta.
Di andarsene subito.

“Un uomo che va di corpo regolarmente è un uomo felice” era solito dire suo padre.
Era stato un medico di campagna e ora, superati da un bel po’ gli anta, Il Dottore sospettava che avesse ragione.
Certo, non era così ingenuo da credere che i soldi dessero la felicità, ma neppure così stupido da credere il contrario. Per questo aveva fatto il chirurgo plastico; come diceva un altro saggio, meglio essere infelici coi soldi che senza.
Se la felicità aveva a che fare con le piccole cose (per esempio andare di corpo ah, ah), avere quattrini non era di ostacolo.
Adesso, però, e benché fosse andato di corpo, non era felice.
Doveva essere per via della campagna. Non gli era mai piaciuta, probabilmente perché quando suo padre andava a fare il suo giro di visite stava via sempre troppo tempo, tanto da fargli temere che non tornasse più.  Alla fine, era andata proprio così perché (era andato in pensione, ma la mania dell’aria aperta gli era rimasta, tanto che gli si era sviluppata una tardiva passione per il trekking) l’avevano trovato stecchito in un fosso.
In ogni caso, lui, Il Dottore, era un tipo di città.
Troppo spazio, fuori, per i suoi gusti. E il cellulare che non prendeva. Lo alzò, come un oracolo tecnologico cui chiedere soccorso. Niente. E anche agli altri succedeva lo stesso. Mentre attendevano che sua moglie uscisse dal bagno avevano concluso che la “copertura totale” di cui si vantavano tutte le compagnie telefoniche, era una gran balla. Darth Vader aveva minacciato di fare causa.
Solo che non era solo una questione di copertura, eh no. Era evidente che non si trattava solo di quello. Tanto per cominciare, avevano gestori diversi e nessuno prendeva. Ma c’era dell’altro.
Chiuse il telefonino con un gesto di stizza e tornò sui suoi passi.
Una volta che si trovava in piscina, un tale si era tuffato dal trampolino, e l’ondata che aveva sollevato lo aveva preso in pieno. Lui aveva in tasca il cellulare (essenziale per annotarsi i dati di tante potenziali clienti di cui le piscine rigurgitavano) e l’apparecchio si era inzuppato.
Il risultato era stato simile a quello che ora vedeva sul display: uno sfarfallio intermittente come le palpebre di un epilettico... ed era così su tutti i cellulari della comitiva. Era come se, nell’aria, fosse diffuso qualcosa che impediva la ricezione.
Tornando indietro incrociò Spock (preferivano chiamarsi coi nomi dei personaggi da cui si mascheravano: era capitato di incontrare altri cosplayers nella vita reale ed era stato imbarazzante) che si dirigeva ai gabinetti quando sentì sua moglie che lo chiamava dall’emporio.

«Sono almeno cinque minuti che è dentro» ringhiò Predator e, per sottolineare il proprio disappunto, prese a scuotere la porta.
Spock guardò alternativamente lui e Darth Vader e, per un istante, sembrò davvero un vulcaniano alle prese con due terrestri particolarmente idioti. «E se si fosse sentito male?».

Il negozietto era veramente aperto. Di più: era spalancato e deserto. Da tempo.
Foglie morte e sporcizia si erano accumulate all’ingresso insieme a fango ormai secco e fogli di giornale spinti dalle correnti d’aria. Qualche animaletto si era intrufolato e si era arrampicato sugli scaffali dei generi alimentari. Confezioni di vari prodotti erano state aperte e il contenuto sparso sul pavimento. Qua e là spiccavano piccole impronte di zampe.
La donna fece qualche passo all’interno. Benché l’istinto le dicesse di darsela a gambe, e in fretta, la parte più evoluta del suo cervello la costrinse a restare. Era quella parte incapace di vedere quanto aveva davanti, la stessa che l’aveva indotta a sottoporsi di eventi di mastoplastica, blefaroplastica, rinoplastica, a ginnastiche sfibranti e diete da fame. La stessa parte che la induceva a travestirsi da Barbarella, odiandosi e tuttavia non riuscendo ad evitarlo. “Così devi diventare” le diceva sua madre, confrontando le loro immagini, la propria e quella di lei bambina settenne con quella di Brigitte Bardot appesa alla specchiera. Lei, ovviamente, aveva fatto l’opposto finché, raggiunta la soglia degli anta, aveva obbedito perché a volte, nella vita, si distrugge ciò che si ama e si diventa ciò che si odia e lei, dopotutto, odiava sua madre o forse se stessa. 
Fece qualche passo ancora, poi si immobilizzò, rifiutandosi di credere che quello che vedeva fosse reale.
Non era una novità, per lei. Ce n’erano sempre, a ogni convention, anche non di cosplayers, cui le fosse capitato di andare.
Ma lì, sul pavimento dietro la cassa di un emporio da quattro soldi in un buco di paese che ne valeva due, simili cose non avrebbero dovuto esistere.
Stava osservando un frattale, del tutto identico, a parte le dimensioni e benché sembrasse composto di un liquido dal forte puzzo di benzina, ai disegni nei campi noti come crop circles.
Lo fissò, incapace di distogliere lo sguardo finché non le parve di scorgere, sulla superficie, linee gialle e marroni come quelle sulle chiazze di petrolio, poi chiamò la persona che l’aveva aiutata, se non ad accettare se stessa, a convivere con la versione di stessa da proporre al mondo, cioè suo marito. Altrimenti noto come “Il Dottore”.

Predator doveva essere davvero compreso nel suo ruolo perché insistette per entrare per primo.
E trovò il gabinetto vuoto.

«È un crop circle di benzina, vero? Come possiamo chiamarlo “gasoline circle?”».
Il Dottore si alzò di scatto.
Come sua moglie, anche se in misura minore, era stato incuriosito, se non attratto, dalla macchia di liquido che si trovava sul pavimento, ma, non appena si era chinato, ogni fascinazione era svanita. Anzi, avvertiva, e con sempre maggior insistenza, un senso di pericolo.
«No, non è benzina. Non solo, almeno. Certo, deve essere fatto di idrocarburi, ma c’è dell’altro. Vedi quelle particelle bianche che sembrano calcificate? Be’ ti sembrerà assurdo, ma giurerei che si tratta di... ».
Il cellulare nella tasca ronzò, vibrando.
Il Dottore lo sollevò osservando lo schermo che lo fissava con luminosa, serafica, tecnologica indifferenza. 
Sua moglie estrasse il proprio dalla borsetta e anche quello fece lo stesso, come se nulla fosse accaduto.
«Ehi» disse Barbarella «facciamoci un selfie!».

«È vuoto» disse Darth Vader allungando il collo da dietro la spalla di Predator.
L’altro si guardò intorno. Un bugigattolo di tre metri quadri al massimo, con un lavabo e un gabinetto alla turca bisognoso di essere pulito. Un rotolo di carta igienica, infilato in  un supporto  sulla parete di destra, srotolato, formava una montagnola bianca accanto allo scarico.    
«Ma va?» fece Predator.
«Siete certi che sia entrato?» chiese Spock da dietro.
Darth Vader si girò verso di lui senza parlare.
«Ed è sparito» continuò l’altro.
Predator indicò la finestrella semiaperta, di quaranta centimetri per venti, da cui entrava l’aria fresca della notte «Noo. Ha fatto un numero alla Houdini ed è scappato di là».
Spock non fece in tempo a replicare.
Un urlo di terrore giunse dall’emporio.
Darth Vader guardò Spock. Sul costume nero, la sua faccia sembrava diventata di gesso.
Predator si mosse per uscire, ma, improvvisamente, barcollò appoggiandosi allo stipite dell’ingresso. «Andate a vedere» ansimò «io arrivo subito».

CosMOHteL.
COSplayers Hotel.
COSMOhtel.
CosMothel.
CosmoTEL.
Una volta i giochi di parole erano la sua specialità, per questo Giorgio aveva sperato che lavorare all’hotel potesse piacergli. Una speranza che era durata non più di trenta minuti.
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt[2]
Cancellò gli anagrammi che aveva scarabocchiato su un bloc notes trovato nel cruscotto, senza notare Spock e Darth Vader che attraversavano il piazzale correndo.

La mano guantata appoggiata alla parete, Predator vide il getto misto di sangue e urina sprofondare nella fogna.
Era più sangue che urina, ormai, e il dolore era sempre peggio.
Come sempre, strinse i denti per non gridare, benché nessuno potesse sentirlo.
Le forme erano importanti. Le forme erano dignità.
Tutti dovevano crepare, uomini e Yautja (che era il vero nome dei Predator, se mai esistevano da qualche parte).
Tirò l’acqua (un’altra formalità da rispettare) e una zaffata acida, che puzzava di benzina, lo assalì. Ma con che cosa pulivano i cessi, da quelle parti?.
Se c’era qualcosa che rimpiangeva, era il fatto di non essere mai stato preso sul serio.
Tutti l’avevano sempre considerato solo una massa di muscoli senza cervello, buono per fare da testimonial a una catena di palestre – anche quando erano diventate le sue palestre.
Muscle and blood and skin and bones./ A mind that's a-weak and a back that's strong[3], come diceva quella stramaledetta canzone.  
E allora tanto valeva mascherarsi da mostro alieno.
Andarsene con dignità era l’unica cosa che contava. Che faceva la differenza tra uomo e uomo. O tra Yautja e Yautja.  
Provò a mettersi dritto, ma le gambe lo tradirono, e dovette puntellarsi di nuovo.
Un liquido nero sgorgò dalle profondità dello scarico, lambì gli scarponi e prese a corroderli, salendo rapidamente lungo le gambe.
Pensò a un’allucinazione indotta dagli antidolorifici (non era la prima, ma non erano mai state così realistiche) e continuò a crederlo anche quando il cuoio cominciò a sfrigolare.
Smise solo quando la sostanza nera che puzzava di petrolio iniziò a sbranargli la carne.

Il negozietto era placido e deserto sotto la familiare, straniante luce del neon.
Solo la sporcizia all’ingresso e l’incuria generale lo rendevano differente da migliaia di altri empori delle stazioni di servizio.
E, ovviamente, la grossa striscia nera che, sul pavimento, partiva da un punto dietro alla cassa  inoltrandosi tra le corsie.
«Ma cosa sta succedendo?» chiese Darth Vader, la voce cavernosa ridotta a una specie di pigolio.
Spock scosse la testa senza rispondere e l’altro lo superò dirigendosi verso l’interno del negozio lungo la scia della traccia scura.
Esitando, Spock fece un passo. Poi vide per terra il cellulare del Dottore.  

Predator era abituato al dolore e un po’ di morfina doveva essere ancora in circolo, forse per questo era ancora cosciente quando la sostanza nera gli divorò le ginocchia e prese a corrodergli le cosce, puntando verso l’inguine.
Improvvisamente si rese conto che non era lo scarico del cesso la via che il tizio vestito da Robby aveva usato per lasciare questo mondo e si ricordò che le dannate forme erano importanti.  
Afferrò la pistola giocattolo che teneva alla cinta e premette il grilletto più volte mentre la mostruosità oscura emetteva bagliori gialli e marroni, come se le scariche della batteria provocassero in essa chissà quale reazione elettrochimica.
«Klaatu Varada Niktu, figlio di buona donna!» ringhiò.

Non era buona educazione, neanche nell’era digitale, guardare le foto altrui senza permesso, ma Spock non seppe trattenersi dallo scorrere le immagini del Dottore e della sua signora.
L’ultima ritraeva Barbarella in un caschè, come una Carrà dei tempi d’oro, in modo da poter inquadrare il pavimento. 
Sorrideva – ma non troppo, anche il lifting aveva i suoi limiti – mentre Il Dottore, al suo fianco, il viso deformato da una smorfia di terrore, era mezzo avvolto in una specie di cellophane nero.
Una pellicola tenebrosa e graveolente come quella che andava addensandosi accanto ai piedi di Spock.    

Giorgio controllò l’orologio: erano fermi da più di un quarto d’ora.
Ciò non avrebbe impedito ai suoi passeggeri di dare a lui la colpa del ritardo, invece che alle loro prostate malconce.
Meditò se suonare il clacson, poi lasciò perdere: sarebbe riuscito a indispettirli senza guadagnare un solo minuto. Tanto valeva scegliere il male minore e rassegnarsi a perdere altro tempo.
Lo avrebbero accusato di essere un perditempo, ma non di essere un perditempo sgarbato.
Ebbe la sensazione che, per quanto si cercasse di indorare la pillola, il diventare adulti si riducesse a questo: scegliere il male minore.
Chiuse la portiera del pulmino, proteggendosi contro il senso di sconforto che (come gli accadeva sempre più spesso) lo stringeva da ogni parte e contro l’aria fredda della notte.
E contro le grida che venivano dall'emporio.
  
Una volta, Darth Vader aveva assistito una tizia il cui il marito aveva stabilito una significativa relazione con una bambola gonfiabile.
L’oggetto, con cui l’uomo era stato sorpreso in flagrante delicto, era stato prodotto in tribunale, causando una certa impressione.
Vader non lo avrebbe mai ammesso, e meno che mai i membri della giuria, ma determinante nel far schizzare verso l’alto l’importo dell’assegno divorzile era stata la circostanza che la bambola fosse nera.
Ora aveva ce l’aveva di nuovo davanti, pronta a denunciare tutti quanti per discriminazione sessuale e razziale.
Solo che era viva.
Darth Vader arretrò davanti a quella mostruosità impeciata che avanzava verso di lui mentre brandelli di carne cadevano a terra raccogliendosi in una pozza.
Arretrò, ma non abbastanza.
Una mammella scoppiò come un chicco di pop corn e il viscidume colloso schizzò colpendolo alla spalla. Risalendo lungo il collo, raggiunse il viso in meno di tre secondi.
Mentre gli occhi sprofondavano nelle orbite sfrigolando come uova cotte troppo in fretta e il cervello collassava su se stesso, l’avvocato riuscì a formulare l’ultimo pensiero cosciente: se gli avessero rovinato il costume, avrebbe fatto causa.     

Venticinque minuti.
Forse un colpetto di clacson, timido timido, era il caso di darlo.
Sfiorò il disco rosso al centro del volante e la radio si accese a tutto volume.
If you see me comin’, better step aside[4]
Balzò in piedi, battendo la testa contro il tetto.
A lotta men didn’t, a lotta men died[5] 
Era un contatto, che altro poteva essere?
Guardandosi in giro, come se la risposta si trovasse là fuori, vide Spock correre zoppicando verso il pulmino.
Per un istante ebbe l’impressione che l’ingegnere petrolifero stesse esercitandosi in una bizzarra corsa su una gamba sola, poi lo sentì urlare e lo vide cadere a terra, accanto alle pompe di benzina.
Solo a quel punto corse fuori.
Ci vollero esattamente cinque secondi perché arrivasse a una dozzina di metri da lui.
Quanto bastava per vedere una specie di macchia d’inchiostro vivente risalire sui pantaloni e avvilupparlo come se fosse un grottesco biscotto immerso in una specie di the nero e colloso .
Vide Spock mettere una mano in tasca, estrarre l’accendino e accenderlo.
Per un momento i due si guardarono in faccia. Una delle orecchie finte era caduta, mentre l’altra sporgeva in fuori come un’antenna piegata dal vento. 
Poi Spock avvicinò la fiamma al liquido nero.
La prima volta che, da ragazzo, i suoi lo avevano portato a un ristorante francese, Giorgio era rimasto affascinato vedendo il cuoco alle prese con le crepes flambè.
La fiammata fu altrettanto veloce, ma infinitamente più intensa e puzzolente.
Quando si esaurì, ciò che rimaneva per terra era la macabra parodia, annerita e fetida, di un essere umano.
Tuttavia, Spock era ancora vivo.
Si chinò su di lui, una mano sulla bocca per non vomitare, del tutto consapevole dell’inutilità di qualunque soccorso, inorridito e tuttavia incantato.
L’altro rantolò qualche parola, il braccio destro, con l’accendino ancora in pugno, strinato e ritto verso l’alto in un’orrida imitazione della Statua della Libertà, la voce alterata dalla scomparsa delle labbra, completamente carbonizzate. «Biologia a base di idrocarburi... chimica del carbonio, ma diversa... impulsi elettrochimici come quelli del cervello... intelligenza...».
Lo stomacò di Giorgio si rovesciò e lui si piegò di lato per vomitare.
Quando ebbe finito, Spock era morto.
E due grosse macchie scure, una dai gabinetti, l’altra dall'emporio, strisciavano verso di lui.
Per qualche secondo ne fu affascinato, incapace di credere a quel che vedeva e notando che una, quella di destra, procedeva più lentamente, percorsa da deboli scariche elettriche, poi il puro, animalesco istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento
Giorgio balzò in piedi, fuggendo verso il pulmino.
Aveva percorso metà della distanza quando il volume della radio si alzò di colpo. One fist of iron, the other of steel / If the right one don't a-get you, then the left one will[6]  risuonò per lo spiazzo come se Ernie Tennesse fosse tornato dall’Oltretomba per un concerto improvvisato.  
Le portiere dell’autobus si chiusero di colpo, con un scatto irridente e perentorio
Poi la macchina, piena di benzina Petrox, si diresse verso Giorgio.
Il ragazzo scartò sulla destra, ma la macchia più lenta gli sbarrò il percorso, le scariche elettrice come fruste guizzanti e fameliche.
Un lieve sfrigolio, alla sua sinistra, gli annunciò che quella più veloce aveva iniziato a nutrirsi di Spock, cominciando dalla testa.
E lasciando libero il braccio che reggeva l’accendino.
Senza riflettere, se impadronì staccandolo dalla mano del morto. Le dita si ruppero con uno schianto, disperdendo frammenti fuligginosi.
La macchia più lenta descrisse una manovra ad arco, cercando di aggirarlo e, alle sue spalle, il pulmino rombò, avvicinandosi.
Giorgio raggiunse la pompa di benzina e staccò la pistola.
La macchia veloce lasciò perdere quel che rimaneva di Spock (chissà come si chiamava davvero, chissà come si chiamavano tutti) puntando verso di lui, divorando i pochi metri che li separavano col rapido, inarrestabile sciacquio di un’onda anomala.
Ebbe la certezza che, fino a quel momento, le “cose” si erano mosse lentamente per puro divertimento, come il gatto col topo. Le gomme del pulmino stridettero  e il motore andò su di giri.
Giorgio schiacciò il pulsante dell’erogatore. Un getto di liquido ambrato schizzò davanti a lui.
Alla nitida, inequivocabile luce del neon, notò che nel fluido marroncino si insinuavano alcune linee più scure.
Accese l’accendino, avvicinando la fiamma azzurrina al carburante.
Le macchie spiccarono un ultimo balzo. Il motore del pulmino ruggì.
Spock aveva ragione: fumare accanto a un distributore era una pessima idea.
Ma a volte si sceglieva il male minore.      

L’E45 era chiusa al traffico e nessun automobilista vide l’esplosione, né udì il fragore.
Nel paese, poco più sotto, non si registrò alcun movimento, né segno d'interesse.
Solo qualche animale selvatico fuggì lontano, ma erano rimasti in pochi, ormai.
Da un pezzo avevano avvertito l’odore dei predatori in caccia.

Il cellulare levato in alto a illuminargli la strada come una debole torcia elettrica, Giorgio ebbe la conferma di quel che sospettava.
Le creature sprigionavano scariche elettrochimiche ed elettromagnetiche.
Impossibile stabilire quale ne fosse la potenza e se il fenomeno fosse volontario o istintivo, ma certo disturbavano le comunicazioni.
Il telefonino sfarfallò più intensamente che mai, poi si oscurò.
Lo chiuse. Era arrivato al paese, ormai, e non gli serviva più. L’illuminazione stradale, benché esigua, poteva bastare.
Percorse la via principale, superando il bar.
L’immondizia era sempre sparsa in mezzo alla strada. Puzzava di avanzata e indisturbata decomposizione.
Controllò il cellulare alzando allo stesso tempo lo sguardo verso i lampioni, in cerca dello sfarfallio degli insetti alla luce dei lampioni, o di qualche pipistrello svolazzante, ma non vide nulla.
Probabile che gli animali, coi loro sensi più acuti, avessero percepito il pericolo prima degli umani,  e se ne fossero andati.
Si domandò quale reazioni potessero aver avuto quelli domestici: cani gatti, o animali da cortile – probabile che ce ne fossero, in un paese come quello: avevano cercato di avvertire i loro padroni del pericolo, come i loro omologhi nelle storie di fantasmi?
Magari non ne avevano avuto il tempo. O non glie lo avevano dato.
Biologia a base di idrocarburi... chimica del carbonio, ma diversa... impulsi elettrochimici come quelli del cervello... intelligenza.
Il petrolio e i suoi derivati erano dappertutto: serbatoi, depositi, plastiche, tessuti...
Era nella terra e nell’acqua.
Era nell’aria.
Fumi derivanti dalla combustione, particelle sospese che si infilavano ovunque.
Annusò il fetore dell’esplosione, portato fin lì dal vento gentile della notte. Lo avvertiva solo perché, in quel momento, era anormalmente intenso, ma c’era sempre.
D’impulso, raccolse una bottiglia e la scagliò contro una finestra.
Il vetro andò in frantumi col fragore di una Tromba del Giudizio.
Si guardò intorno. Nessuna reazione. Tutto spento come l’occhio di un morto, con le palpebre pietosamente abbassate per impedire a chi rimaneva di vedere l’ultimo orrore.
Vide la macchina nella strada laterale, parcheggiata per metà sul marciapiedi e per metà fuori.
Non si era sbagliato: una portiera era aperta. Salì.
Inspirò le tracce di petrolio nelle plastiche, nelle gomme, nei metalli.
Non ce se ne accorgeva perché c’era sempre. Era familiare. Era dentro tutto quanto. Era dentro di lui.
In fondo, quel tizio aveva ragione: ogni storia fantastica, per non dire ogni storia, parla del potere. Di chi ce l’ha e lo usa, o di chi lo perde, o di chi non ce l’ha, ma lo scopre dentro di sé o lo acquista a caro prezzo.
Appoggiò le dita sul meccanismo dell’accensione e ce le tenne finché il motore non si mise in moto, poi cercò alla radio quella canzone che gli piaceva tanto e partì.


Some people say a man is made outta' mud 
A poor man's made outta' muscle and blood 
Muscle and blood and skin and bones 
A mind that's a-weak and a back that's strong 

You load sixteen tons, what do you get? 
Another day older and deeper in debt 
Saint Peter don't you call me 'cause I can't go 
I owe my soul to the company store 

I was born one mornin' when the sun didn't shine 
I picked up my shovel and I walked to the mine 
I loaded sixteen tons of number 9 coal 
And the store boss said "Well, a-bless my soul" 

You load sixteen tons, what do you get? 
Another day older and deeper in debt 
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go 
I owe my soul to the company store 

I was born one mornin', it was drizzlin' rain 
Fightin' and trouble are my middle name 
I was raised in the canebrake by an ol' mama lion 
Cain't no-a high-toned woman make me walk the line 

You load sixteen tons, what do you get? 
Another day older and deeper in debt 
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go 
I owe my soul to the company store 

If you see me comin', better step aside 
A lotta men didn't, a lotta men died 
One fist of iron, the other of steel 
If the right one don't a-get you, then the left one will 

You load sixteen tons, what do you get? 
Another day older and deeper in debt 
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go 
I owe my soul to the company store.



[1]          “Sono nato una mattina che il sole non c’era”.
[2]          “Porti sedici tonnellate e cosa guadagni?/ Ogni giorno sei più vecchio e più indebitato”
[3]          “Muscoli e sangue e pelle e ossa. / Una mente che è debole e una schiena che è forte”
[4]          “Se mi vedi arrivare meglio che ti fai da parte”
[5]          “Un sacco di gente non l'ha fatto e un sacco ne è morta”.
[6]Un pugno di ferro, l’atro d’acciaio / se il destro non ti stende, il sinistro lo farà” 


LEGGI L'INTERO ROMANZO!
SOSTA DI MEZZANOTTE

7 commenti:

  1. Bello e divertente! “Blobbesco”, ma con un fluido tutt'altro che alieno; fonte di potere che diventa esso stesso potere incontrollabile sull’uomo. Così l’ho vista, nella sua pop-fantascientifica minaccia di idrocarburi senzienti. Ottima anche la caratterizzazione dei personaggi in costume e l’atmosfera.

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  2. Come dicevo, l'atmosfera pulp dell'illustrazione corrisponde in pieno a quella che anche io avevo in mente. Poi, che dire, io cerco di scrivere roba che possa divertire e se uno si diverte sono contento. Se poi scava un po' di più vuol dire che la parte puramente ludica ha svolto alla meglio il suo compito e quindi, se possibile, sono ancora più contento.

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  3. Della trilogia, questo è il racconto che, personalmente, reputo "più horror" nonostante anch'esso abbia i suoi momenti comici. La narrazione è permeata di un'aura sinistra, più degli altri, che si materializza nei nostri blob-predatori con ottima efficacia. La narrazione è perfettamente integrata dagli "intermezzi musicali" più che azzeccati. Particolarmente apprezzate le frasi sul potere e sul petrolio, messo in relazione con l'intelligenza delle creature... insomma, piaciuto molto!

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  4. Ti dirò... nel costruire la trama ho usato la canzone come canovaccio: "sono nato una mattina che il sole non c'era" (sottoterra) "se mi vedi arrivare è meglio che ti togli di mezzo", "se il destro non ti stendo lo farà il sinistro" (riferito al doppio attacco delle due creature).

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  5. Ciao Rub, bello questo tuo racconto. Gli riconosco diversi padri, dal già citato "Blob" a "L'invasione degli ultracorpi" passando per "Dalle fogne di Chicago", vecchio romanzo fanta-horror di Kate Wilhelm e Ted Thomas, diciamo, per brevità, che è un po' una fusione dei due noti film. Qui però ci metti anche molto di tuo, dall'idea di ciò da cui i tuoi blob derivano alla caratterizzazione dei personaggi come partecipanti a una masplayer (cosa di moda anche da noi, la più nota, credo, quella che si tiene a Lucca in autunno in occasione dell'annuale mostra del fumetto), che sulle prime mi pareva futile e invece è efficace nel dare un tono tra il malinconico e l'ironico ai personaggi. Decisamente piaciuto. Non conoscevo questo racconto, che ho visto solo oggi, ma leggo nel commento di Peppe che fa parte di una trilogia. Il resto sta qui nel sito di Fabio? Ciao.

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  6. Ciao. Il racconto è stato il primo di una serie di tre - inizialmente non pensavo a una trilogia - che hanno in comune il fatto di svolgersi in una stazione di servizio (a proposito di esse e dei "non luoghi" ti rimando anche al racconto di Beppe che sta su net) e i blob. Il secondo è "Una strada, una bionda e un mucchio di soldi" e l'ho inviato solo agli amici. Il terzo invece - che mi pare tu non abbia letto - si intitola "Missione siamese". Sono collegati, ma indipendenti e l'ultimo è di circa 20.000 parole; volendo qualcosa di simile ai film a episodi di una volta. E' un tipo di formato assolutamente incompatibile sia col web (troppo lunghi) sia con la carta stampata (troppo brevi e soprattutto troppo simili a una trilogia di racconti, un tipo di libro assolutamente indigesto al pubblico, specie italiano), ma, come direbbe Clarck Gable, "francamente me ne infischio". In comune, hanno la mescolanza di registri tra il comico, il malinconico e l'inquietante (che qui predomina). La più famosa convention di cosplayers è quella di Lucca, ma ce ne sono periodicamente un po' ovunque. Lieto che ti sia piaciuto.

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    1. Penso che ne verrebbe fuori un ottimo e-book, invece, come pochi ne ho acquistati ultimamente. Io di queste tre storie, a parte la buona e sapiente dose di humor, ho trovato affascinante e superbamente resa anche la sua atmosfera alla Twilight Zone.

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