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5 commenti:

  1. Caro Xorbrax Gamgam (perdona l'irriverenza, ma il tuo nome mi ricorda i versi che faccio mentre mangio!Ahhahah!) volevo raccontarti qualcosa a proposito dei:

    RACCONTINI TROPPO “INI” E NARRAZIONI EROSE DALLE TERMITI

    Nel suo imperdibile saggio “l’arte del romanzo”, Milan Kundera ci racconta come nel 1935, tre anni prima di morire, Edmund Husserl tenne, a Vienna e a Praga, alcune famose conferenze sulla crisi dell’umanità europea.
    L’aggettivo “europeo” designava per lui quell’identità spirituale che si estende al di là dell’Europa geografica (all’America, per esempio) e che è nata con la filosofia greca classica. Questa, secondo lui, per la prima volta nella Storia, intese il mondo (il mondo nel suo insieme) come una questione da risolvere. Lo interrogava non per soddisfare questo o quel bisogno pratico, ma perché l’umanità era “pervasa dalla passione del conoscere”.
    Così profonda sembrava a Husserl questa crisi, che egli si chiedeva se l’Europa fosse ancora in grado di sopravviverle.
    Le radici della crisi erano per lui situabili all’inizio dei Tempi moderni, in Galileo e in Descartes, nel carattere unilaterale delle scienze europee, che avevano ridotto il mondo a un semplice oggetto di esplorazione tecnica e matematica e avevano escluso dal loro orizzonte il mondo concreto della vita, die Lebenswelt, come egli diceva. Il progresso scientifico aveva spinto l’uomo nei tunnel delle discipline specializzate. Più aumentava il suo sapere, più egli perdeva di vista tanto l’insieme del mondo quanto se stesso, affondando così in quello che Heidegger, discepolo di Husserl, chiamava, con una formula bella e quasi magica, “l’oblio dell’essere”.
    Dopo due decenni di era informatica la crisi descritta da Kundera e da Husserl si è aggravata, e di brutto.
    La globalizzazione della storia del pianeta, questo sogno/incubo tecnocapitalista di cui qualche dio perfido ha malignamente permesso la realizzazione (e non capisco il perchè), si accompagna a un processo di riduzione vertiginosa.
    Vero è che le termiti della riduzione rodono da sempre la vita umana: anche il più grande amore finisce per essere ridotto a uno scheletro di poveri ricordi. Ma il carattere della società moderna rinforza mostruosamente questa maledizione: la vita dell’uomo è ridotta alla sua funzione sociale: competere contro gli altri per conquistarsi un posto al sole; la storia di un popolo a pochi avvenimenti, fatti sempre connessi al far fuori in qualche modo i concorrenti, a loro volta ridotti a un’interpretazione tendenziosa tipo il fanatismo religioso o l’ideologia settaria o snobistica; la vita sociale è ridotta alla lotta politica o alla ingiusta prepotenza economica, e questa al dogma del darwinismo sociale della guerra di tutti contro tutti.
    L’uomo è preso in un vero e proprio turbine di riduzione, nel quale il “mondo concreto della vita” di cui parlava Husserl fatalmente si offusca e l’essere cade nell’oblio.

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  2. Nel ritrovarmi a vivere in questa tragica situazione, non mi sorprendo nel leggere ogni giorno, nel vasto oceano del Web, centinaia di raccontini sempre più “ini” e narrazioni sempre più simili alle afasiche frasi dei telegrammi.
    Si tende a semplificare tutto e a banalizzare ogni cosa, nel disperato tentativo di essere più accessibili e a portata di mano, per essere più spendibili e vendibili.
    Basta leggere l’incipit dell’ultimo romanzo di Fabio Volo o sorbirsi la piatta mediocrità dell’ultimo film di Checco Zalone, per capire fino a che punto le tarme della riduzione hanno eroso lo spirito della Poesia e del Romanzo, l’eredità dell’identità europea di cui parlano Husserl e Kundera.

    Sì, amiche e amici, il romanzo e la poesia occidentali sono divorati dalle termiti della riduzione, le quali non riducono soltanto il senso del mondo concreto della vita, come lo chiama Husserl, favorendo l’oblio dell’Essere, ma anche il senso delle nostre opere.
    Il romanzo (come la poesia e tutta la cultura) si trova sempre di più nelle mani dei mass media, ora informatici; e questi, essendo gli agenti della globalizzazione della storia planetaria, amplificano e canalizzano il processo di riduzione; distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi comuni che si prestano a essere accettati dalla maggioranza, da tutti, dall’umanità intera. E poco importa che nei loro diversi canali di comunicazione menzognera affiorino i diversi interessi politici ed economici.
    Dietro a questa differenza di superficie regna uno spirito comune.
    Livellare, massificare, zombificare.
    Impedire che le teste pensino da sole.
    Bandire l’approfondimento, la complessità e il pluralismo, la diversità di pensiero nelle persone.
    Questo spirito comune dei mass media che si dissimula dietro la loro apparente diversità politica di marketing è lo spirito del nostro tempo. E questo spirito mi sembra contrario allo spirito della vera narrativa e della vera poesia.
    Lo spirito del romanzo (e della poesia) è lo spirito di complessità.
    Ogni romanzo (ogni poesia) dice al lettore: “Le cose sono più complicate di quanto tu pensi”. È questa l’eterna verità del romanzo e della poesia, sempre meno udibile, però, nel frastuono delle risposte semplici e rapide e di quattordici caratteri che precedono la domanda e la escludono.
    Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione il Colpevolista o ha ragione l’Innocentista, e nelle tribune politiche televisive e nei forum informatici assistiamo tutti i giorni al triste e vano spettacolo di persone che vogliono un mondo in cui il bene e il male siano nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esiste in loro quel desiderio atavico di giudicare prima di aver fatto lo sforzo di capire.
    L’antica saggezza di Edipo e Amleto, che ci parlano della difficoltà di sapere e dell’inafferrabile verità sembra ingombrante e inutile.

    Ma sta succedendo un fatto ancor più grave e tragico: lo spirito del romanzo (e della poesia) è lo spirito di continuità: ogni opera è la risposta alle opere che l’hanno preceduta, ogni opera contiene tutta l’esperienza anteriore del romanzo (e della poesia). Ma lo spirito del nostro tempo è concentrato sull’attualità, che è così espansiva, così ampia, da escludere il passato dal nostro orizzonte e ridurre il tempo al solo attimo presente. Preso in questo sistema, il romanzo e la poesia non sono più opere (cose destinate a durare, a congiungere il passato all’avvenire), ma un’avvenire di attualità come tante altre, un gesto senza domani.
    Il risultato finale è che siamo così schiacciati sul nostro presente che abbiamo abolito ogni studio e ogni rispetto per la tradizione e nel contempo, per la sperimentazione.
    Passato e futuro rischiano di sparire dalle nostre vite e dalle nostre anime.

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  3. A furia di ridurre il portato dei nostri racconti e delle nostre poesie, ci romperemo tutti i coglioni di continuare a creare e diventeremo muti e inerti come pietre, come hanno pianificato anni orsono i pochi burattinai che reggono le fila dei nostri giochi vitali.
    E quei fili hanno un nome: “NON PENSIERO, DOBBIAMO FARE IN MODO CHE NON PENSINO CON LA LORO TESTA.”
    CONSIGLI DI LETTURA PER APPROFONDIRE IL POST

    Milan Kundera, L'arte del romanzo, Adelphi
    George Orwell, 1984, varie edizioni

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    1. Tritare o ridurre tutto ai minimi termini per renderlo più assimilabile. Hmmmgrrr…! "Mi piace".
      Una scelta non sempre oculata, forse, come quando ho trasformato il mio mondo in una splendida palla di sabbia, ma mi piace. Tanto non ho memoria dei miei errori; non quanta la mia fame, almeno.

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